Authors: Dante
O milizia del ciel cu’ io contemplo,
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adora per color che sono in terra
Già si solea con le spade far guerra;
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ma or si fa togliendo or qui or quivi
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lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.
Ma tu che sol per cancellare scrivi,
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pensa che Pietro e Paulo, che moriro
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per la vigna che guasti, ancor son vivi.
Ben puoi tu dire: “I’ ho fermo ’l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,
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ch’io non conosco il pescator né Polo.”
Parea dinanzi a me con l’ali aperte
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la bella image che nel dolce
frui
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liete facevan l’anime conserte;
parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
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che ne’ miei occhi rifrangesse lui.
E quel che mi convien ritrar testeso,
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non portò voce mai, né scrisse incostro,
ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
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e sonar ne la voce e “io” e “mio,”
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quand’ era nel concetto e “noi” e “nostro.”
E cominciò: “Per esser giusto e pio
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son io qui essaltato a quella gloria
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che non si lascia vincere a disio;
e in terra lasciai la mia memoria
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sì fatta, che le genti lì malvage
Così un sol calor di molte brage
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si fa sentir, come di molti amori
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usciva solo un suon di quella image.
Ond’ io appresso: “O perpetüi fiori
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de l’etterna letizia, che pur uno
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parer mi fate tutti vostri odori,
solvetemi, spirando, il gran digiuno
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che lungamente m’ha tenuto in fame,
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non trovandoli in terra cibo alcuno.
Ben so io che, se ’n cielo altro reame
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la divina giustizia fa suo specchio,
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che ’l vostro non l’apprende con velame.
Sapete come attento io m’apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
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dubbio che m’è digiun cotanto vecchio.”
Quasi falcone ch’esce del cappello,
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move la testa e con l’ali si plaude,
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voglia mostrando e faccendosi bello,
vid’ io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
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con canti quai si sa chi là sù gaude.
Poi cominciò: “Colui che volse il sesto
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a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
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distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
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non rimanesse in infinito eccesso.
E ciò fa certo che ’l primo superbo,
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che fu la somma d’ogne creatura,
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per non aspettar lume, cadde acerbo;
e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
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che non ha fine e sé con sé misura.
Dunque vostra veduta, che convene
essere alcun de’ raggi de la mente
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di che tutte le cose son ripiene,
non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
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molto di là da quel che l’è parvente.
Però ne la giustizia sempiterna
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la vista che riceve il vostro mondo,
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com’ occhio per lo mare, entro s’interna;
che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
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èli, ma cela lui l’esser profondo.
Lume non è, se non vien dal sereno
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che non si turba mai; anzi è tenèbra
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od ombra de la carne o suo veleno.
Assai t’è mo aperta la latebra
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che t’ascondeva la giustizia viva,
ché tu dicevi: ‘Un uom nasce a la riva
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de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
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di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
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sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
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ov’ è la colpa sua, se ei non crede?’
Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
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da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni animali! oh menti grosse!
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La prima volontà, ch’è da sé buona,
Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
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nullo creato bene a sé la tira,
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ma essa, radïando, lui cagiona.”
Quale sovresso il nido si rigira
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poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,
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e come quel ch’è pasto la rimira;
cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l’ali
Roteando cantava, e dicea: “Quali
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son le mie note a te, che non le ’ntendi,
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tal è il giudicio etterno a voi mortali.”
Poi si quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
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che fé i Romani al mondo reverendi,
esso ricominciò: “A questo regno
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non salì mai chi non credette ’n Cristo,
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né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’
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che saranno in giudicio assai men
prope
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a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
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quando si partiranno i due collegi,
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l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.
Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
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quella che tosto moverà la penna,
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per che ’l regno di Praga fia diserto.
Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
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che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
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sì che non può soffrir dentro a sua meta.
Vedrassi la lussuria e ’l viver molle
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di quel di Spagna e di quel di Boemme,
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che mai valor non conobbe né volle.
Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
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segnata con un i la sua bontate,
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quando ’l contrario segnerà un emme.