Authors: Dante
l’altra, traendo a la rocca la chioma,
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favoleggiava con la sua famiglia
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d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.
Saria tenuta allor tal maraviglia
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una Cianghella, un Lapo Salterello,
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qual or saria Cincinnato e Corniglia.
A così riposato, a così bello
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viver di cittadini, a così fida
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cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
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e ne l’antico vostro Batisteo
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insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed Eliseo;
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mia donna venne a me di val di Pado,
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e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo ’mperador Currado;
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ed el mi cinse de la sua milizia,
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tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
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per colpa d’i pastor, vostra giustizia.
Quivi fu’ io da quella gente turpa
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disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt’anime deturpa;
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e venni dal martiro a questa pace.”
O poca nostra nobiltà di sangue,
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se glorïar di te la gente fai
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qua giù dove l’affetto nostro langue,
Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
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sì che, se non s’appon di dì in die,
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lo tempo va dintorno con le force.
Dal “voi” che prima a Roma s’offerie,
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in che la sua famiglia men persevra,
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ricominciaron le parole mie;
onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
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ridendo, parve quella che tossio
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al primo fallo scritto di Ginevra.
Io cominciai: “Voi siete il padre mio;
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voi mi date a parlar tutta baldezza;
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voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.
Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
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la mente mia, che di sé fa letizia
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perché può sostener che non si spezza.
Ditemi dunque, cara mia primizia,
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quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
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che si segnaro in vostra püerizia;
ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
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tra esso degne di più alti scanni.”
Come s’avviva a lo spirar d’i venti
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carbone in fiamma, così vid’ io quella
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luce risplendere a’ miei blandimenti;
e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
dissemi: “Da quel dì che fu detto ‘
Ave
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al parto in che mia madre, ch’è or santa,
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s’allevïò di me ond’ era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
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e trenta fiate venne questo foco
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a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei e io nacqui nel loco
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dove si truova pria l’ultimo sesto
Basti d’i miei maggiori udirne questo:
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chi ei si fosser e onde venner quivi,
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più è tacer che ragionare onesto.
Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
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da poter arme tra Marte e ’l Batista,
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erano il quinto di quei ch’or son vivi.
Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
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Oh quanto fora meglio esser vicine
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quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
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e a Trespiano aver vostro confine,
che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
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che già per barattare ha l’occhio aguzzo!
Se la gente ch’al mondo più traligna
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non fosse stata a Cesare noverca,
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ma come madre a suo figlio benigna,
tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
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che si sarebbe vòlto a Simifonti,
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là dove andava l’avolo a la cerca;
sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
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sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
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e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
Sempre la confusion de le persone
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principio fu del mal de la cittade,
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come del vostro il cibo che s’appone;
e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
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più e meglio una che le cinque spade.
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
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come sono ite, e come se ne vanno
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di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
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poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
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che dura molto, e le vite son corte.
E come ’l volger del ciel de la luna
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cuopre e discuopre i liti sanza posa,
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così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
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onde è la fama nel tempo nascosa.
Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
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Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
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già nel calare, illustri cittadini;
e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
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e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.
Sovra la porta ch’al presente è carca
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di nova fellonia di tanto peso
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che tosto fia iattura de la barca,
erano i Ravignani, ond’ è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
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de l’alto Bellincione ha poscia preso.
Quel de la Pressa sapeva già come
regger si vuole, e avea Galigaio
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dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.
Grand’ era già la colonna del Vaio,
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Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
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a le curule Sizii e Arrigucci.
Oh quali io vidi quei che son disfatti
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per lor superbia! e le palle de l’oro
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fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.
Così facieno i padri di coloro
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che, sempre che la vostra chiesa vaca,
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si fanno grassi stando a consistoro.
L’oltracotata schiatta che s’indraca
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dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente
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o ver la borsa, com’ agnel si placa,
già venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
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che poï il suocero il fé lor parente.
Già era ’l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era
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buon cittadino Giuda e Infangato.