3
In piedi davanti al cancelletto sprangato del giardino, Paul Devlin suonò per la seconda volta. La temperatura era calata e il vento che spazzava l'Ottantottesima Strada gli aveva arrossato il viso. Non che avesse importanza, perché lui il freddo quasi non lo sentiva. Era subentrata la stanchezza della lunga nottata che, insieme con la consapevolezza del lavoro ancora da svolgere, gli ottundeva i sensi.
Si passò una mano tra i capelli neri ondulati mentre aspettava che Rolk aprisse. Il suo viso sottile, quasi fragile, sembrava stranamente vulnerabile in un poliziotto, caratteristica che gli era stata spesso utile per acquietare i timori di individui sospetti. Ma ora i suoi lineamenti sembravano raggrinziti e gli occhi scuri erano iniettati di sangue. Si sentiva esausto. Colpa dell'obitorio, si disse. Gli faceva sempre quell'effetto. Lo spettacolo, l'odore e, sì, l'atmosfera.
La porta si aprì e comparve Rolk, fresco e rilassato.
«Stai da cani, Paul. Entra a bere un caffè.»
Devlin lo seguì lungo uno stretto corridoio. «Staresti da cani anche tu se non dormissi da due giorni. Avevo appena sistemato la faccenda Lorenzo quando è arrivata la chiamata da Central Park.»
Prese la tazza di caffè che l'altro gli porgeva e cominciò a sorseggiarlo con aria riconoscente.
«Come l'ha presa Lorenzo? Ho dimenticato di chiedertelo.»
«Come avevi previsto tu. Prima ha strillato come un maiale sgozzato, poi ha farfugliato qualcosa sul suo amore per la moglie. Alla fine, quando si è accorto che le stronzate non servivano, si è fatto serio, ha chiuso la bocca ed è andato a telefonare al suo avvocato. Avevi ragione, proporranno un patteggiamento. Impossibile non capirlo, stanotte. E dopo avere assistito alla sua sceneggiata, ti dirò che non me ne importa più se è stato lui o no. Quel buffone si merita il peggio per il semplice fatto di essere lo stronzo che è.»
Rolk annuì. «Solo, non ripetere certe cose in pubblico.» Bevve il caffè. «Jerry ha concluso nulla?»
«Dice che avrà quasi finito per il tuo arrivo. Ma non gli piace che gli si faccia fretta.»
«Non sarebbe contento neppure se gli dessi tempo fino al mese prossimo,» brontolò Rolk. «E riguardo al marito della donna?»
«Peters e Moriarty l'hanno trovato a casa. Hanno detto che ci è rimasto parecchio male, ma faranno in modo di portarlo alla morgue più o meno verso le dieci.»
Parlando, Devlin gironzolava per il soggiorno. Le dimensioni dell'appartamento di Rolk l'avevano sempre meravigliato e così i dipinti appesi alle pareti, gli scaffali che contenevano libri di ogni genere. Si voltò a guardare il collega.
«Lo sai, questa casa è stata la tua idea migliore,» osservò. «Cristo, se penso a quello che deve valere oggi. Grazie agli affitti degli appartamenti non hai bisogno neppure della pensione. Immagino che sia per questo che non ti fai scrupolo di dire ai capintesta il fatto loro quando diventano troppo seccanti.»
«Se posso dirglielo è perché sono bravo nel mio lavoro e loro lo sanno.» Rolk s'interruppe, conscio del sorriso di Devlin. «E se la casa ti piace tanto, forse te la lascerò nel testamento.» Un'altra pausa. «A condizione che non combini troppi casini in questo caso.»
«Non mi dispiacerebbe,» replicò Devlin. «Certo farebbe impazzire mio figlio. Ma che io sia dannato se ho mai capito perché ti ostini a tenere una casa così grande tutta per te. Non ci sei mai e pulirla dev'essere una gran rottura di scatole.»
Per un istante gli occhi di Rolk si rannuvolarono. «Sono semplicemente troppo pigro per traslocare,» si accontentò di rispondere.
Quando posò la tazza su un piccolo scrittoio, Devlin notò una pila di carte ordinatamente disposta. «Un altro tentativo di ritrovare tua figlia?» domandò.
«Già. Un altro.»
«Che cosa stai controllando questa volta?»
«Gli alloggi universitari. L'anno prossimo compirà diciott'anni, immagino che si iscriverà a qualche facoltà. E probabilmente lo farà usando il nome da nubile della madre.»
Devlin annuì, ma non disse nulla. C'era da impazzire a cercare un fantasma vecchio di quindici anni.
«Be', spero che salti fuori qualcosa,» sospirò alla fine.
«È un tentativo,» ribadì Rolk. «Né migliore né peggiore di quelli che l'hanno preceduto.» Posò la tazza accanto a quella di Devlin. «Tanto vale che ci trasferiamo nell'ufficio di Jerry. Sarà una giornata lunga.»
«Sì,» convenne Devlin. «Lunga e maledettamente sgradevole.»
4
Devlin imboccò l'ampia rampa che portava al seminterrato dell'ufficio dell'ispettore medico sulla Trentesima. Mentre scendeva dall'auto, Rolk lanciò un'occhiata all'ingresso principale del Bellevue Hospital, una fortezza di mattoni rossi dall'aria minacciosa, e si chiese che cosa mai avesse avuto in mente la giunta comunale quando aveva destinato come area di scarico della morgue uno spiazzo chiaramente visibile dal reparto psichiatrico. «L'avranno fatto a scopo terapeutico,» borbottò tra sé cominciando a scendere la rampa. «O magari di intrattenimento.»
Percorsero un corridoio piastrellato d'azzurro, immacolato eppure pervaso dal tanfo della carne in decomposizione, ed entrarono nella prima delle sale destinate alle autopsie. Feldman era proprio in fondo, chino sul microscopio; al centro della stanza il cadavere senza testa giaceva su un lettino, e una donna anziana, conosciuta tra i colleghi come «La Cucitrice», chiudeva con ago e filo l'incisione a Y effettuata dal medico sul corpo.
«Allora, che cosa abbiamo qui?» domandò Rolk, passando accanto al cadavere.
Feldman sollevò di scatto la testa. «Te lo dico io che cosa abbiamo. Abbiamo un giovane poliziotto col pepe al culo.» Puntò un dito contro Devlin.
Rolk si sfilò il soprabito e lo lasciò cadere sulla sedia di metallo. «Qualche problema?» domandò, impassibile.
«Non giocare a fare l'innocentino, Rolk. So benissimo che la sua unica, patetica scusa è che sta eseguendo i tuoi ordini.» Puntò di nuovo il dito, questa volta contro nessuno in particolare. «Questo è un laboratorio scientifico, non una bottega di macellaio.» Agitò la mano, includendo nel gesto la stanza, l'edificio, il mondo intero, per quanto ne sapeva Rolk. «Ogni anno arrivano qui trentamila cadaveri. Trentamila! Vale a dire un terzo di tutti quelli che tirano le cuoia in città. E a
settemilacinquecento
di questi fottutissimi bambolotti bisogna fare l'autopsia. Mi senti, Rolk? L'autopsia!»
Il poliziotto scosse la testa. «Certo che è un inferno di lavoro, Jerry. E nessuno potrebbe farlo se non tu.»
Il viso di Feldman si fece paonazzo, le guance gli si gonfiarono, poi il medico cominciò a ridere. «Sei un bastardo matricolato, Rolk. Matricolato.»
L'altro sbatté le palpebre e piegò la testa sulla spalla. «Non ti chiedo neppure che cosa significa, Jerry, perché temo che me lo diresti. Raccontami piuttosto a quali conclusioni sei arrivato.»
Feldman lanciò un'occhiata a Devlin e si strinse nelle spalle. «Sta recitando la parte dell'idiota,» disse. «Mai stato in casa sua?»
«Ne esco adesso,» rispose Devlin.
«Allora saprai che è piena di libri,» continuò Feldman. «E non semplicemente libri, ma classici, libri d'arte, insomma, nomina un libro importante, e lui ce l'ha.»
«Torniamo ai fatti,» lo interruppe Rolk.
«Nel mio ufficio. Ho bisogno di posare il culone su qualcosa di morbido.»
Rolk e Devlin seguirono il medico lungo un altro corridoio piastrellato di azzurro. Rolk camminava tenendo in mano il soprabito e un lembo spazzava il pavimento, raccogliendone tutta la polvere.
Feldman aprì la porta con un calcio e crollò sulla sedia dietro la scrivania. «Caffè?» propose agli altri due. Al loro assenso, pigiò il pulsante di un vecchio interfono e tubò: «Elvira, tesoro. Portaci tre caffè, per favore.» Poi si raddrizzò e fissò Rolk in faccia. «La settimana scorsa mi ha detto che portare il caffè non rientrava nelle sue mansioni,» spiegò con un sorriso maligno. «E io l'ho minacciata di farle l'autopsia da viva.»
Quando Elvira arrivò con il caffè, il suo viso era una maschera di gelo. Uscì senza dire una parola e Feldman si appoggiò allo schienale della sedia sogghignando, il corpo immenso che traboccava dai braccioli.
«Allora?» lo sollecitò Rolk.
«Niente di buono. Un rompicapo che farà impazzire i giornalisti.» Con uno sforzo si protese in avanti e si afferrò l'indice della mano destra con la sinistra. «Primo: niente droga, niente alcool, niente violenze sessuali. Aveva nello stomaco un'insalata e un tè. E queste sono
tutte
le buone notizie.»
Rolk si chinò verso di lui. «Non farla troppo lunga, Jerry.»
Feldman annuì. «La morte è stata causata da una massiccia perdita di sangue fuoriuscito dalle vene e dalle arterie del collo che sono state recise. La ferita alla schiena è stata inferta prima e le ha troncato la spina dorsale, trasformandola all'istante in un'invalida. È tuttavia altamente probabile che la nostra vittima fosse in sé quando l'assassino ha cominciato a tagliarle la testa.» Agitò la mano, come per prevenire qualsiasi domanda. «È anche probabile, sebbene non possa affermarlo con certezza, che negli ultimi minuti di vita non abbia sentito nulla, dato che la spina dorsale era recisa.»
«E quel lembo di pelle asportata?» volle sapere Rolk. «È successo prima o dopo la decapitazione?»
«Dopo,» dichiarò Feldman. «Le abrasioni riscontrate sul muscolo mostrano che la pelle è stata staccata tirando verso il basso.» Esitò. «L'ultimo punto, e il più sgradevole, è che la nostra vittima era incinta di due mesi.»
Rolk chiuse gli occhi. «Fantastico. Adesso ci basta scoprire che era una suora in abiti secolari e non mancherà più niente.»
«Proprio così,» assentì il medico.
«Qualche idea sul motivo dello scorticamento?» interloquì Devlin.
«Nessuna che vi piacerà sentire. Ma se volete la mia opinione, io direi che si è voluto seguire un preciso cerimoniale.»
«Perché?» lo sfidò Rolk.
«Il taglio è netto, senza slabbrature e al lembo asportato è stata data la forma approssimativa di un mantello. Intenzionalmente.»
Rolk si frugò nella tasca alla ricerca delle sigarette, ne accese una ed esalò il fumo verso l'alto. Guardò Feldman. «Che cosa sai dell'arma del delitto, Jerry?»
«Ne ho trovato qualche frammento in entrambe le ferite.» Il medico si strinse nelle spalle. «Segare ossa è un lavoro impegnativo. Li stanno analizzando proprio adesso, avremo i risultati tra una mezz'ora, credo.»
Squillò il telefono e Feldman sollevò il ricevitore. «Okay,» disse brevemente prima di riattaccare. Poi, rivolto a Rolk: «È appena arrivato il marito della vittima. Non credo che servirebbe mostrargli il corpo su una telecamera a circuito chiuso. Dovrà dare un'occhiata di persona alle cicatrici e ai denti, se vuoi un'identificazione certa.»
Rolk annuì e guardò il compagno. «Vallo a prendere e di' a Moriarty e a Peters di aspettare fuori. Meno gente avrà intorno, meglio sarà.»
Rolk rimase a fissare il soffitto per parecchi minuti dopo che Devlin fu uscito, prima di brontolare: «Forse è il caso di coprire in qualche modo la zona... della testa. Tanto per rendere le cose un po' più facili a quel poveraccio.»
Feldman annuì, poi piantò i palmi sulla scrivania e si alzò. «Questa è la parte che più detesto,» grugnì. «Mi fa sentire un maledetto becchino.»
Stephen Gault era un uomo alto e ben fatto, sui trent'anni, che, pensò Rolk, in circostanze normali avrebbe potuto definirsi bello. Ma ora aveva il viso color cenere e le labbra e le mani gli tremavano incontrollabilmente.
Venne condotto in una stanzetta dove erano stati portati gli effetti personali della vittima e mentre Feldman si fermava sulla porta, estraniandosi il più possibile dalla scena, Rolk e Devlin lo guidarono verso un lungo tavolo di legno.
«Mr Gault,» esordì Rolk, e la sua voce era morbida e al tempo stesso distaccata, «per prima cosa vorremmo che lei desse un'occhiata a certi oggetti. Poi, se sarà ancora necessario, le chiederemo di identificare la vittima.»
Si chinò a estrarre da una scatola di cartone una borsetta, un anello, un orologio da polso. Sentì l'altro trattenere il respiro e mormorare le parole: «
Oh, mio Dio,
»
più e più volte. Poi tirò fuori i vestiti ripiegati, le scarpe, una sciarpa firmata. Si accorse che il tremito di Gault era aumentato, lo udì singhiozzare. Allora gli posò una mano sul braccio e lo guidò a una sedia. «La prego, si sieda, Mr Gault,» bisbigliò.
Gli concesse qualche istante prima di prendere un'altra sedia e sedersi davanti a lui. «È in grado di dirmi se quegli oggetti appartengono a sua moglie?» domandò, del tutto superfluamente.
Gault tirò un profondo sospiro e annuì. «Erano suoi,» mormorò con voce rauca.
Rolk attese ancora. Voleva le informazioni necessarie in fretta, ma non a spese di quel disgraziato.
«Siamo costretti a chiederle di dare un'occhiata al corpo, Mr Gault,» riprese poi. «In circostanze normali lo facciamo attraverso un sistema televisivo a circuito chiuso, ma questa volta non è possibile.»
Per qualche momento Gault non parlò, come se facesse fatica a comprendere il significato delle sue parole. Poi sollevò di scatto la testa e fissò Rolk negli occhi. «Perché no?»
Il poliziotto si chinò su di lui e parlò scegliendo con cura le parole. «La vittima è stata decapitata. E la testa non è stata ancora ritrovata.»