Ritual (2 page)

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Authors: William Heffernan

Tags: #Fiction, #Thrillers, #Suspense

BOOK: Ritual
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Grace Mallory fissò con durezza la giovane collega. «Allora fa' come credi,» concluse seccamente. «Ma non aspettarti applausi da me.»

 

9 novembre, 20.30

 

Kate Silverman stava in piedi sul palco e le piume iridescenti della cappa tolteca drappeggiata sulle sue spalle baluginavano alla luce dei riflettori. Nella mano teneva un lungo pugnale di ossidiana; nell'altra un'ascia di bronzo dall'intaglio elaborato.

«È quindi evidente che quello che nella nostra società consideriamo semplicemente un omicidio rituale era per i toltechi l'ultimo e il supremo atto d'amore.» Sorrise. «So che è difficile accettare una decapitazione come un'espressione d'amore, ma per i toltechi era proprio così. Era quello il dono più grande che si potesse offrire e la selezione tra i candidati al sacrificio era molto severa.»

Tornò a deporre pugnale e ascia nella lunga cassa posata sul tavolo accanto a lei e si tolse il mantello. «Per i toltechi era anche un atto di grande gioia, come si può dedurre dalle raffigurazioni del cerimoniale, dai volti sorridenti di coloro che partecipavano al sacrificio, visto come una sorta di trasformazione. Quando i sacerdoti indossavano le maschere di pietra raffiguranti gli dei, divenivano effettivamente quegli dei, un concetto non dissimile da quello dell'eucarestia, dove il pane e il vino si trasformano nel sangue e nel corpo di Cristo.

«Ma la trasformazione riguardava anche le vittime sacrificali, perché tramite il sacrificio si tramutavano anch'esse in divinità, ed ecco il motivo per cui accoglievano spontaneamente, e lietamente, la morte.

«Riscontriamo qui un netto contrasto con le nostre credenze religiose.
I
toltechi uccidevano convinti di agire per il meglio, mentre per i seguaci della religione giudaico-cristiana il sacrificio umano ha sempre comportato connotati terrorizzanti. Ci basti ricordare i tormenti di Abramo quando il Signore gli ordinò di sacrificare Isacco, o l'immagine dolente del Cristo crocifisso.

«Forse è per questo che i toltechi erano molto scrupolosi nello scegliere gli eletti per questo immenso atto d'amore. Solo i nobili ne erano degni, ovvero l'élite del popolo, i pochi tra i molti.» Un sorrisetto le aleggiò sulle labbra. «E guardando i presenti, non posso fare a meno di pensare che tutti noi avremmo avuto una posizione di rilievo nel loro elenco di candidati.»

Si unì al crepitio di risate nervose che dilagò in sala, prima di continuare. «Ora vorrei passare a illustrarvi il secondo scopo per cui ci siamo riuniti, ovvero la necessità di alleviare le sofferenze in cui versa attualmente il popolo maya. Permettetemi di presentarvi un uomo che ha lavorato tra loro sia come antropologo di fama, sia come sacerdote cattolico, padre Joseph Lopato.»

 

Il cocktail party che seguì la conferenza sembrava focalizzato su Kate e lei si crogiolava nell'attenzione generale. Parecchie persone la avvicinavano, gente che contava nell'ambiente del museo, per dirle quanto avessero apprezzato la conferenza e come aspettassero con ansia l'apertura della mostra.

Dall'altro capo della stanza Grace la fissava con una malcelata irritazione che da un lato mise Kate a disagio, dall'altro la lusingò. Tutto aveva funzionato nel migliore dei modi, come lei aveva previsto. E Grace sarebbe stata costretta ad ammetterlo, almeno con se stessa.

Prese una coppa di champagne dal vassoio di un cameriere che passava e voltandosi si trovò a faccia a faccia con un uomo che sembrava decisamente fuori posto in quella folla elegante. Di mezza età e vestito in modo alquanto trasandato, a Kate parve, per qualche motivo che non riuscì a comprendere, estremamente attraente.

«Mi chiamo Rolk,» si presentò lui. «Volevo solo dirle che ho apprezzato moltissimo la conferenza.»

Piegando un po' la testa di lato, Kate si sforzava di portare a galla un ricordo risvegliato dalle sue parole. «Perché il suo nome mi suona così familiare?» chiese un po' incerta. Poi si illuminò. «Lei è un funzionario di polizia,» rammentò, soddisfatta. «Sul
Sunday Times Magazine
di qualche settimana fa c'era un articolo su di lei.» Continuò a frugare nei ricordi mentre Rolk taceva. «La definiva... 'lo studioso della morte' o qualcosa di simile. L'articolo diceva che lei passa tutto il suo tempo a studiare la natura dell'omicidio. È per questo che è venuto alla conferenza?»

Lui annuì. «Più o meno. E devo riconoscere di avere imparato molto più di quanto mi aspettassi.»

«Grazie.» Kate gli sorrise, lusingata. «È vero quello che dicono di lei? Che non riesce a pensare ad altro che alla sua professione?»

Quando lo vide abbozzare un debole sorriso, si domandò se non lo avesse involontariamente offeso.

«Forse sotto questo aspetto ci assomigliamo,» rispose Rolk alla fine. «Mi sembra molto appassionata alla sua materia, ed è ovvio che l'ha studiata a fondo. È questo l'interesse principale della sua vita? Il lavoro, intendo.»

Senza alcun motivo Kate si accorse di arrossire. «A volte sembrerebbe proprio così,» rispose, poi rise, in parte di sé e in parte per quello che lui aveva detto. «Ma detesto pensare che sia tutto qui... qualche anno passato a indagare sulle antiche civiltà e a rimettere insieme frammenti di urne funerarie.»

Questa volta il sorriso di Rolk fu ampio e spontaneo. Lei era molto bella e dovette frenare l'impulso di dirglielo.

«So come ci si sente,» replicò invece. «Bene, grazie ancora per la splendida serata.»

Si voltò e mentre si allontanava tra la folla Kate rimase a guardarlo, rimpiangendo che non fosse rimasto più a lungo.

 

1

 

In piedi su un piccolo rialzo del terreno, Stanislaus Rolk se ne stava immobile, le mani ficcate nelle tasche del cappotto, il corpo lievemente chino in avanti, e guardava quello che era rimasto del cadavere. La faccia segnata era impassibile e solo chi lo conosceva bene avrebbe scorto la sofferenza nei suoi occhi. A chiunque altro sarebbe apparso semplicemente stanco, o forse addirittura annoiato. Rolk tenne a lungo lo sguardo fisso sulla donna. La morte aveva inflaccidito i contorni del corpo, ma quanto restava di lei era sufficiente a rivelargli che era stata relativamente giovane; sufficiente a dirgli che era stata attraente, il tipo di donna a cui gli uomini dedicano più di un'occhiata. Ovviamente non era da escludersi che avesse avuto un viso insignificante, ma per saperlo avrebbe dovuto aspettare. Aspettare che qualcuno identificasse il corpo e fornisse alla polizia una sua foto. O che venisse ritrovata la testa.

Sotto di lui, la scena del delitto era stata delimitata da transenne e le lampade portatili ad arco fendevano la semioscurità del primo mattino, diffondendo tutt'intorno una luce vivida. Quella parte di Central Park era isolata, solo una piccola radura circondata dagli alberi, ma distava poco più di duecentocinquanta metri dalla Quinta Avenue e dall'Ottantunesima Strada.
I
due agenti autori del ritrovamento avevano risposto a una chiamata del 911 riguardante la presenza di alcuni indumenti femminili sullo zoccolo del Cleopatra Needle. Gli abiti erano piegati e la biancheria formava una specie di sentiero che conduceva al cadavere. Lì, dove avrebbe dovuto esserci la testa, era stata lasciata la borsetta della donna o almeno una borsa che la polizia riteneva le fosse appartenuta.

Rolk lanciò un'occhiata ai due agenti che ora se ne stavano all'interno dell'area delimitata, a confabulare con gli altri poliziotti incaricati di tenere a distanza la stampa. Aveva parlato con loro un'ora prima, quando i due erano ancora sconvolti e in preda alla nausea, ma erano entrambi giovani; nel giro di qualche anno, la vista di certi orrori avrebbe smesso di turbarli. Ed era questo, si disse, l'aspetto più triste del loro lavoro.

Tornò a guardare il corpo e l'uomo alto e snello che se ne stava lì accanto scarabocchiando appunti su un taccuino. Appena trentenne, Paul Devlin era nella polizia da nove anni e da quattro collega di Rolk nella Squadra Omicidi. Rolk sapeva che la vista del corpo mutilato non avrebbe sconvolto Devlin più di quanto non sconvolgesse lui e si chiese se quella insensibilità, conquistata con il tempo, fosse da invidiare o piuttosto da commiserare.

Quando Paul Devlin chiuse il taccuino e quando alzò gli occhi sul collega, un sorrisetto gli aleggiò brevemente sulle labbra. Rolk appariva in disordine come sempre; in quel soprabito sembrava che ci avesse dormito e i capelli folti, striati di grigio, avevano l'aria di essere stati ravviati con le dita e non con un pettine. Rolk aveva un viso aguzzo, un po' segnato; non il viso di un poliziotto, piuttosto quello dello zio scapolo che si fa vivo la sera di Natale o il giorno del Ringraziamento e poi si fa dimenticare per il resto dell'anno.

Una mano gli toccò il braccio e lui si voltò a guardare il sergente in uniforme che si era avvicinato.

«Il furgone della carne è appena entrato nel parco,» riferì il graduato. «Il tenente ha detto che voleva essere informato subito del suo arrivo.»

«Glielo dirò io,» replicò Devlin. «Chi è il medico legale che si occuperà del cadavere?»

«Jerry Feldman. Il dottor Morte.»

Devlin annuì. Feldman era forse il miglior patologo del dipartimento di polizia, ma aveva una lingua così tagliente che tutti tendevano a evitarlo il più possibile.

«Non ho tempo di stare ad aspettare le sue conclusioni,» dichiarò voltandosi e avviandosi verso Rolk.

«Neppure io,» borbottò il sergente alle sue spalle.

Quando fu a pochi passi dal collega, Devlin si infilò in tasca il taccuino. Alto più o meno un metro e ottantaquattro, lo superava di circa sette, otto centimetri, ma il suo corpo snello sembrava torreggiare su quello più tarchiato e robusto di Rolk.

«Sta arrivando il medico legale, Jerry Feldman,» annunciò.

L'altro annuì. «Della testa non si sa ancora niente?»

«Niente. Di sicuro negli immediati dintorni non c'è.» Devlin lanciò un'occhiata all'orologio. «Il sole sorgerà tra una mezz'ora e allora potremo allargare la zona delle ricerche.
I
ragazzi del Servizio Emergenza stanno scandagliando il New Lake. È basso e se la testa è finita là dentro non avranno difficoltà a trovarla.»

Rolk si ficcò ancora più profondamente le mani in tasca e cominciò a scendere il leggero pendio. «Vediamo che cosa ha da dirci Jerry.»

L'arrivo del furgone dell'obitorio causò una certa sensazione tra la gente della stampa che gli agenti in uniforme si sforzavano di tenere a bada. Le telecamere entrarono in funzione non appena Feldman emerse dall'abitacolo e le troupe televisive cominciarono a farsi largo a gomitate, strappando grida di protesta ai giornalisti che si vedevano spinti da parte.

Con la faccia aggrondata, Feldman ignorò anche i cronisti e i cameramen che conosceva. Alto e decisamente sovrappeso, aveva il viso paonazzo e capelli neri che si andavano facendo sempre più radi. Cercava di nascondere la calvizie ricorrendo al riporto, uno stratagemma che serviva soltanto a renderlo vagamente ridicolo.

Si fermò vicino alle transenne, e infilato un enorme camice sopra il maglione marrone si avviò senza fretta verso il cadavere. Quando fu vicino a Rolk e a Devlin si batté una mano sullo stomaco. «Cashmere,» brontolò, riferendosi al pullover protetto dal camice. «È un casino far sparire le macchie di sangue.»

Non avendo ricevuto risposta, lasciò cadere a terra la borsa e si chinò a fissare il cadavere. «Merda,» cominciò.

Rolk si tolse le mani di tasca. «Forza, spara.»

«È morta,» dichiarò Feldman. «Lo dichiaro ufficialmente.»

«Tante grazie. Che altro?»

«La testa dov'è?»

«La stiamo ancora cercando.»

Feldman si aggiustò gli occhiali sul naso, poi si inginocchiò accanto al corpo. Infilò un paio di guanti di gomma e iniziò a esplorare lo squarcio alla base del collo. «Un taglio fatto come si deve,» osservò. «Molto preciso. Un lavoretto che ha richiesto del tempo.» Fece un cenno a un poliziotto in uniforme. «Aiutami a girarla.»

L'agente esitò un istante, poi, notando il lampo irato nei suoi occhi, si affrettò a obbedire.

«Gesù,» ansimò Feldman. Alzò lo sguardo su Rolk: «Avevi già visto?»

«Non l'abbiamo neppure toccata,» replicò l'altro, avvicinandosi.

Dalla schiena della donna era stata asportata una lunga striscia di pelle, più larga in fondo, che lasciava scoperti i muscoli e le ossa intorno alla colonna vertebrale.

«Scorticata,» sentenziò Feldman. «E anche in questo caso, un lavoro abile.»

Devlin li aveva raggiunti. «Un medico?» suggerì a questo punto.

Feldman lo guardò irato. «Ti piacerebbe, eh?»

«Solo se fosse un patologo.»

«Be', non illuderti. Qualunque macellaio, perfino un cacciatore esperto sarebbe in grado di fare una cosa del genere.» Con un dito risalì lungo la spina dorsale, fermandosi su una profonda ferita che si apriva pochi centimetri al di sotto della nuca. «È stato usato un oggetto tagliente, un tomahawk o un'accetta. Probabilmente con il primo colpo le ha reciso la spina dorsale.»

«È stata quella la causa della morte?» domandò Rolk.

«Non saprei dirlo, ma ne dubito. Ma dalla quantità di sangue è chiaro che è stata uccisa qui, sul posto. Quanto al resto...» Si strinse nelle spalle. «Dovrete aspettare che finisca l'esame.»

«Ho bisogno di sapere tutto al più presto, Jerry.»

Feldman annuì. «Sì, naturalmente.
I
titoli dei giornali non saranno simpatici, e questo farà innervosire maledettamente gli alti papaveri.»

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