Read Moll Flanders (Collins Classics) Online

Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Moll Flanders (Collins Classics) (43 page)

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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Fu un paio di settimane dopo ciò, che io ebbi qualche ragionevole timore d’essere compresa nell’ordine di morte della sessione seguente; e non fu senza grande difficoltà, e senza infine un’umile domanda di deportazione, che riuscii a scansarla, tanto male mi trovavo messa a motivo della mia fama, e tanto pesante era la mia infelice notorietà di vecchia delinquente; anche se in ciò, a rigore, mi facevano torto, perché io a rigor di legge non ero affatto una vecchia delinquente, qualunque opinione avessero di me i giudici, perché mai ero comparsa prima a loro in un processo; sicché i giudici non potettero accusarmi di essere una vecchia delinquente, però l’accusa riuscì a presentare il mio caso come volle.

Avevo adesso la sicurezza di aver salva la vita, a condizione d’essere deportata, condizione, per la verità, molto dura per sé, ma in fondo non troppo dura al paragone; e di conseguenza io non farò nessun commento su quella sentenza, né sulla scelta davanti alla quale mi trovai. Piuttosto che la morte, si sceglie sempre qualsiasi altra cosa, specialmente quando, com’era il caso mio, dall’altra parte ci aspetta una prospettiva non di tutto riposo.

Il buon prete, il cui interessamento, benché lui mi fosse estraneo, m’era valso la proroga, si dolse sinceramente di quegli sviluppi. Aveva nutrito la speranza, disse, che io terminassi i miei giorni sotto l’influsso dei buoni insegnamenti, sì da non dimenticare le angosce trascorse, e da non essere di nuovo buttata in mezzo a una marmaglia sciagurata, quale è in genere la gente che vien spedita così in esilio, ambiente dove, come disse lui, avrei avuto bisogno di un aiuto veramente non comune della grazia di Dio per non ritornare cattiva come prima.

Non ho nominato per parecchio tempo la mia governante, che per la gran parte di quel tempo, anche se non per tutto, era stata molto gravemente ammalata, e poiché era giunta vicina a morte per la malattia come c’ero giunta io per la condanna, era diventata una gran penitente; non l’ho nominata, ripeto, perché in tutto quel tempo non la vidi; ma, poiché si andava rimettendo ora in salute e ricominciava ad uscire, venne a trovarmi.

Le raccontai in che stato mi trovavo, e da qual vario flusso e riflusso di paure e di speranze ero stata travolta; le narrai com’ero scampata, e a quali condizioni; e lei si trovò presente quando il prete espresse il suo timore che io mi dessi di nuovo al male ricadendo in mezzo a una compagnia sciagurata come in genere è quella dei deportati. Anch’io per la verità ci pensavo con mestizia, perché sapevo che bande spaventose mandano sempre via insieme, e dissi alla mia governante che i timori del bravo prete non erano infondati.

“Bene, bene,” dice lei, “ma spero che non ti lascerai tentare da esempi tanto orribili.”

E, appena se ne fu andato il prete, mi disse che non voleva scoraggiarmi perché forse si potevano trovare il mezzo e il modo di aiutarmi a cavarmela per conto mio, diversamente, e di questo mi avrebbe riparlato.

Io la guardai con attenzione, e mi sembrò che avesse un’aria più allegra del solito, e mi feci immediatamente mille idee sul fatto di tornare in libertà; ma non riuscivo assolutamente a immaginare in che modo; né a figurarmene uno verosimile; la cosa però mi preoccupava troppo perché potessi lasciarla andar via senza darmi una spiegazione, che a lei invece non andava di darmi, e tuttavia prevalse la mia insistenza, e, mentre ancora io insistevo, lei mi rispose in poche parole così: “Allora, hai del denaro, no? Hai mai sentito in vita tua che qualcuno sia stato deportato quando aveva un centinaio di sterline in tasca? Credi a me, bambina,” dice.

Io capii subito quel che voleva dire, ma le dissi che lasciavo tutto a lei da fare, per me non vedevo speranza al di fuori di una rigida esecuzione dell’ordine, e, siccome si trattava di una severità che veniva considerata misericordia, non v’era dubbio che sarebbe stata rigidamente osservata. Lei si limitò a dire: “Tenteremo quel che si può fare.” E così ci separammo quella sera.

Rimasi in carcere per quasi quindici settimane dopo la firma dell’ordine di deportazione. Per qual motivo non so, ma, alla fine, passato quel tempo, fui messa a bordo di una nave sul Tamigi, insieme a una banda di altri tredici personaggi, i più duri e sciagurati che mai Newgate avesse fabbricato ai miei tempi; e bisognerebbe mettersi a raccontare una storia molto più lunga di questa per descrivere il livello di insolenza e di temeraria ribalderia al quale quei tredici arrivarono, e il modo in cui si comportarono durante il viaggio; di questo possiedo una divertentissima relazione, di cui il capitano della nave che li portava mi dette le bozze, e che dette l’incarico al suo secondo di scrivere.

Può sembrare che non valga la pena di addentrarsi nel racconto di tutti i piccoli episodi che mi capitarono in quell’intermezzo delle mie avventure; voglio dire, fra l’ordine definitivo della mia deportazione e il momento del mio imbarco sulla nave; e io son troppo prossima alla fine del mio racconto per trovare lo spazio; ma una cosa che riguarda me e il mio marito del Lancashire non posso fare a meno di raccontarla.

Costui, come ho già raccontato, era stato trasferito dalla parte comune del carcere al cortile di mezzo, con tre dei suoi compagni, perché ne avevano pescato un altro da aggregare a loro per qualche tempo; lì, per non so quale motivo furono tenuti in custodia senza essere condotti al processo per quasi tre mesi. Pare che trovarono il modo di dar delle mance, o di comprare certi che dovevano venire a testimoniare contro di loro, perché c’era bisogno di prove per condannarli. Dopo qualche incertezza per quella ragione, riuscirono a trovare prove sufficienti contro due di loro, per farli fuori; ma gli altri due, e uno dei due era il mio marito del Lancashire, restarono ancora lì in attesa. Avevano, mi pare, contro ognuno di loro una testimonianza completa, ma siccome la legge faceva stretto obbligo che i testimoni fossero due, non riuscivano a farne nulla. Pare tuttavia che fossero decisi a non lasciare andare i due, sicuri che qualche prova nuova sarebbe saltata fuori; e a questo scopo credo che furon fatte le pubblicazioni, che quei certi prigionieri erano stati presi, e che chi era stato rapinato da loro poteva venire al carcere a vederli.

Io colsi l’occasione per soddisfare la mia curiosità, fingendo di essere stata rapinata sulla diligenza di Dunstable, e di voler vedere i due banditi. Ma, quando arrivai nel cortile di mezzo, mi travestii così bene, e mi camuffai tanto il volto, che lui vide ben poco di me, e di conseguenza non capì chi ero; e quando tornai fuori, dissi a tutti che li conoscevo molto bene.

Immediatamente corse per tutto il carcere la voce che Moll Flanders andava a testimoniare contro uno dei banditi, e che in quel modo io mi scapolavo la condanna alla deportazione.

Quelli lo vennero a sapere, e subito mio marito volle vedere quella signora Flanders che lo conosceva tanto bene e che doveva testimoniare contro di lui; e io ebbi perciò il permesso di andarlo a trovare. Mi vestii con gli abiti migliori con i quali potessi permettermi di apparire in un luogo simile, e andai nel cortile di mezzo, ma per un po’ mi tenni il cappuccio sul volto. Lui sulle prime parlò poco, mi domandò soltanto se lo conoscevo. Io dissi che lo conoscevo sì, e molto bene; ma mi nascondevo il volto, contraffeci anche la voce, in modo che non potesse nemmeno immaginare chi ero. L’avevo conosciuto, dissi, fra Dunstable e Brickhill; ma volgendomi al carceriere che era lì, chiesi se non potevano concedermi di restare sola con lui. Quello disse, certo, certo, come volevo, e molto educatamente si ritirò.

Appena se ne fu andato quello, ed ebbe chiuso la porta, io gettai via il cappuccio, e scoppiando a piangere, “Caro,” dico, “non mi riconosci?” Lui si fece pallido, e restò senza parola, come fulminato, e, incapace di dominare la meraviglia, non riuscì a dire altro che: “Lasciami sedere.” E sedutosi al tavolo posò sul tavolo il gomito, e, reggendosi il capo con la mano, fissò lo sguardo in terra come un idiota. Io, d’altra parte, piangevo così forte, che per un po’ non potei più parlare; ma dopo avere dato un certo sfogo con le lacrime ai miei sentimenti, ripetei le stesse parole: “Caro, non mi riconosci?” Al che lui rispose di sì, e per un po’ non disse altro.

Dopo un certo tempo, ancora meravigliato, alzò gli occhi verso di me e disse: “Come puoi essere così crudele?” Io non capii subito cosa voleva dire; e risposi: “Perché mi chiami crudele? Che cosa ti ho fatto di crudele?”

“Venir qui,” dice lui, “in un posto simile, non è forse un modo di offendermi? Io non ti ho derubata, almeno non per strada.”

Compresi da quello che non sapeva affatto in che miserevole condizione mi trovavo io, e pensava che, venuta a sapere che lui era lì, io fossi venuta a rinfacciargli d’avermi abbandonato. Ma io avevo troppe cose da raccontargli per prendermela, e, in poche parole, gli dissi che ero ben lontana dall’idea di offenderlo, al massimo potevo venire a dolermi con lui; si sarebbe facilmente persuaso che non ci pensavo nemmeno, quando gli avessi detto che stavo peggio di lui, per molti versi. Lui sembrò piuttosto preoccupato dalla affermazione generica che stavo peggio di lui, ma con una specie di sorriso mi guardò un po’ stranito e disse: “Come può essere? Se vedi che sono in catene, a Newgate, con due compagni miei che sono stati già impiccati, come puoi dire che stai peggio di me?”

“Su, caro,” dico io, “ne avremmo per un bel pezzo, se io dovessi raccontarti, e tu stare a sentire, la mia infelice storia; se sei disposto ad ascoltarla, capirai facilmente che sto peggio di te.”

“Ma come è possibile,” dice ancora lui, “se io mi aspetto d’esser sistemato per sempre alla prossima sessione?”

“Sì,” dico io, “è possibilissimo, se ti dico che me m’hanno già sistemata per sempre tre sessioni fa, e sono qui condannata a morte; non sto peggio di te?”

Allora, veramente, lui rimase di nuovo zitto, come ammutolito, e dopo un po’ si alza in piedi.

“Coppia infelice!” dice. “Come può essere ciò possibile?”

Io lo presi per mano. “Su, mio caro,” dissi, “mettiamo pure a confronto le nostre sventure. Io sono carcerata in questa stessa prigione, e in una situazione molto peggiore della tua, e tu ti convincerai che non sono venuta qui ad offenderti, quando saprai i particolari.”

Con ciò, tornammo a sederci insieme, e io gli raccontai la mia storia quanto mi parve opportuno, arrivando infine al fatto che m’ero ridotta in grande povertà, e dipingendomi come caduta in mezzo a una tale compagnia da trovarmi indotta ad alleviare le mie sventure in un modo al quale ero purtroppo non avvezza, e che, compiendo quelli un tentativo a casa di un commerciante, ero stata presa, io che non facevo altro che star ferma sull’uscio perché la cameriera mi aveva tirato dentro; io non avevo rotto nessuna serratura, non avevo portato via niente, e nonostante ciò, ero stata dichiarata colpevole e condannata a morte; ma i giudici, tenendo conto della miseria della mia condizione, avevano provveduto a farmi condonare la pena, a patto che accettassi di essere deportata.

Gli raccontai che il peggio m’era capitato perché in carcere mi avevano presa per una certa Moll Flanders, che era una ladra famosa e fortunata, della quale tutti avevano sentito parlare, ma che nessuno aveva visto mai; ma quello, come lui ben sapeva, non era affatto il mio nome. Misi tuttavia in conto ogni cosa alla mia malasorte, e al fatto che sotto quel nome ero stata trattata da vecchia delinquente, benché fosse quella la prima volta che si occupavano di me. Gli feci un lungo racconto di quel che m’era capitato dall’ultima volta che l’avevo visto; ma gli dissi che l’avevo visto un’altra volta che lui non s’immaginava, e gli raccontai come l’avevo visto a Brickhill; quanto accanitamente gli correvan dietro, e come, raccontando che io lo conoscevo, e che era un gentiluomo tanto per bene, il signor…, il piglia piglia era finito, e il capo gendarme se n’era andato via.

Lui ascoltò con la massima attenzione tutta la mia storia, e sorrise per molti particolari che eran tutte cose da poco, molto al di sotto di quel che aveva combinato lui; ma quando arrivai al fatto di Little Brickhill, si meravigliò.

“E così fosti tu, mia cara,” dice, “a dare scacco alla folla che a Brickhill avevamo alle calcagna?”

“Sì,” dissi, “fui proprio io.” E gli raccontai allora tutto quello che in particolare quella volta avevo visto di lui.

“Ma allora,” disse lui, “fosti tu quella volta a salvarmi la vita, e io sono contento di doverti la vita, perché adesso ti pagherò il mio debito, e ti libererò dalla situazione in cui ti trovi, a costo di morire nel tentativo.”

Ma no, io dissi; era un rischio troppo grande, non valeva la pena che lui ci si mettesse, per una vita che non valeva la pena di salvare.

Questo non c’entrava, disse lui, era una vita che per lui valeva il mondo intero; una vita che a lui aveva dato una vita nuova; “perché,” dice, “io non corsi mai veramente il rischio d’esser preso se non quella volta sola, fino al momento poi in cui m’hanno preso.”

Mi raccontò, infatti, che il pericolo quella volta stava nel fatto che non sapeva d’essere inseguito da quella parte; da Hockley se l’erano battuta per un’altra strada, e a Brickhill erano arrivati per i campi coltivati, non per la via, ed erano sicuri che nessuno li avesse visti.

Mi fece a questo punto un lungo racconto della sua vita, che sarebbe in verità una curiosissima storia, assai divertente per giunta. Mi raccontò che s’era messo a fare il bandito di strada una dozzina d’anni prima di sposare me; la donna che lo chiamava fratello non era, in realtà, sua sorella, non gli era nemmeno parente, ma era una che apparteneva alla loro banda e, mantenendosi in contatto con loro, viveva sempre in città, dove aveva una quantità di conoscenze; lei dava a loro informazioni precise sulle persone che uscivano dalla città; e grazie all’intesa con lei, loro avevano fatto diversi ottimi colpi; quella credeva d’avergli procurato una fortuna quando portò me da lui, ma le capitò di restar delusa, del che per la verità lui non poteva farle colpa; se il suo destino avesse voluto che io realmente possedessi il patrimonio di cui aveva saputo quella, lui aveva deciso di abbandonar la strada e mettersi a fare una vita onesta e ritirata, di non farsi più vedere da nessuno finché non fosse venuta un’amnistia generale o non fosse riuscito lui, naturalmente pagando, a far mettere anche il suo nome in qualche atto speciale di condono, in modo da potersene star tranquillo; ma, come altrove si è visto, s’era trovato costretto a disfarsi del suo equipaggio e a rimettersi a fare il suo vecchio mestiere.

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