Read Moll Flanders (Collins Classics) Online

Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Moll Flanders (Collins Classics) (12 page)

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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In breve, ci sposammo, e per parte mia, ve lo assicuro, lui anche come uomo valeva la pena di sposarlo. Era, infatti, l’uomo più spiritoso che mai una donna abbia avuto, anche se le sue condizioni non erano buone come io avevo immaginato, né d’altra parte lui le migliorò troppo sposando me.

Sposati che fummo, dovetti con accortezza arrivare a dirgli quant’era modesto il mio capitale e a rivelargli che non c’era altro. Ma era necessario farlo, e perciò un giorno che eravamo soli colsi l’occasione di entrare direttamente in argomento e parlargliene.

“Mio caro,” dico, “siamo sposati da due settimane. Non è il caso che tu sappia se hai preso una moglie che possiede qualcosa o che non possiede nulla?”

“Quando vorrai tu, cara,” dice lui. “Io sono contento di avere la moglie che amo. Non ti ho neanche troppo seccata con questa storia,” dice.

“È vero,” dico io, “ma io mi trovo in grande imbarazzo, e non so come fare.”

“Che c’è, mia cara?” dice lui.

“Ecco,” dico io, “è un po’ spiacevole per me, e più spiacevole ancora sarà per te. Mi hanno detto che il Capitano… (e feci il nome del marito della mia amica) ti ha detto che io ho molto più denaro di quanto io abbia mai preteso di avere, e io sono sicura di non avergli detto io di farlo.”

“Bene,” dice lui, “il Capitano… può avermelo detto, ma, con questo? Se tu non hai tanto, la cosa riguarda lui, ma tu non mi hai detto mai che l’avevi, e perciò io non posso prendermela con te nemmeno se non hai assolutamente niente.”

“Questo è così giusto,” dico io, “e così generoso, che mi serve solo ad essere addolorata il doppio.”

“Meno hai, cara,” dice lui, “peggio è per tutti e due; ma io spero che il tuo dolore non sia causato dal timore che io diventi scortese con te, in mancanza di una dote. No, no. Se non possiedi niente, dimmelo chiaro, e subito. Potrò magari dire al capitano che mi ha imbrogliato, ma non potrò mai dire che mi hai imbrogliato tu. Non l’avevi scritto di tua mano che eri povera? Io avrei dovuto crederti.”

“Bene,” dico io, “mio caro, sono contenta che non riguarda me il fatto che sei stato tratto in inganno prima del matrimonio. Se d’ora in poi io dovessi ingannarti, nulla vi sarebbe di peggio. Che io sia povera è vero, ma non povera al punto da non aver nulla.” Così tiro fuori dei titoli di banca e glieli consegno, per un valore di circa centosessanta sterline. “Ecco qualcosa, caro,” dico, “e non è nemmeno tutto.”

Lo avevo condotto così vicino a non attendersi nulla, con quanto avevo detto prima, che il denaro, benché la somma in sé fosse piccola, fu doppiamente gradito da lui. Ammise che era più di quel che si aspettava, ma disse che non dai miei discorsi lui s’era lasciato trarre in inganno: l’idea della mia ricchezza ai suoi occhi l’avevano data i miei bei vestiti, orologio d’oro, un paio di anelli con diamanti.

Lo lasciai accontentarsi di quelle centosessanta sterline un paio di giorni e poi, dopo esser stata fuori durante il giorno come fossi andata a prelevarle, gli portai a casa altre cento sterline in oro e gli dissi che ve n’erano per lui ancora alcune altre. In breve, in una settimana gli portai altre centottanta sterline, e pezze di lino per circa sessanta sterline, che gli raccontai d’essere stata costretta a prendere insieme con le cento sterline d’oro che gli avevo dato, come recupero di un credito di seicento sterline, il che faceva poco più di cinque scellini per sterlina, a dir molto.

“E adesso, mio caro,” gli dico, “mi dispiace di dirti che questo è tutto, e che ti ho consegnato tutti i miei averi.” Aggiunsi che, se la persona che aveva le mie seicento sterline non avesse approfittato di me, io sarei valsa adesso per lui mille sterline. Ma così era, io ero stata leale, non mi ero tenuta nulla per me, se ci fosse stato di più gliel’avrei dato.

Lui fu così conquistato dal modo e così contento per la somma, perché aveva avuto una paura terribile che non vi fosse nulla del tutto, che accettò con molta gratitudine. E in tal modo io riuscii a compiere l’imbroglio di passare per ricca senza aver denaro, e di indurre con la frode un uomo a sposarmi per la finzione della mia ricchezza; azioni tutte che, ad ogni modo, io considero le più pericolose che una donna possa compiere, per le quali corre grandissimo rischio di trovarsi molto male in seguito.

Mio marito, per dire quel che è giusto, era un uomo d’indole molto buona, ma non era uno sciocco. Poiché s’accorgeva che le sue rendite non erano adeguate al tenor di vita che avrebbe voluto condurre se io gli avessi portato quanto lui si aspettava, e poiché era un po’ deluso dalle rendite che gli venivano dalle sue piantagioni in Virginia, manifestò diverse volte il suo proposito di andare ad abitare in Virginia, per vivere del suo; e spesso decantava il modo in cui si viveva laggiù, con poca spesa, nell’abbondanza, piacevolmente, e così via.

Io compresi subito il suo punto di vista, e una mattina lo affrontai con franchezza e gli dissi come la pensavo. Il suo patrimonio, dissi, non rendeva nulla, a quella distanza, a paragone di quel che poteva rendere se lui era sul posto. Io avevo in mente di andare ad abitare là. Aggiunsi che mi rendevo conto che, se lui era rimasto deluso dalla moglie perché in un certo senso non avevo corrisposto alla sua aspettativa, non potevo fare a meno, per ripagarlo, di dirgli che ero dispostissima a trasferirmi a vivere in Virginia con lui.

Lui mi disse mille cose gentili perché gli avevo fatto quella proposta. Mi disse che, anche se era deluso nell’aspettativa di un patrimonio, non era però deluso della moglie, e che io ero per lui tutto quel che una moglie può essere, e, considerando tutti i particolari, lui era in definitiva molto soddisfatto. Ma quella mia proposta era così gentile, che non sapeva come dirmelo.

Per farla breve, decidemmo di partire. Lui mi disse che possedeva là una gran bella casa, con ottimi mobili, e che sua madre ora viveva e abitava lì, con una sua sorella, ed erano quelli i soli parenti che aveva. Appena lui sarebbe arrivato là, sua madre sarebbe andata a vivere in un’altra casa, che era proprietà di lei e doveva restarlo fino alla sua morte per passare poi a lui. Così io avrei avuto una casa tutta per me. E io trovai poi che le cose stavano esattamente come lui mi aveva detto.

Caricammo, a bordo della nave che ci trasportava, una quantità di suppellettili di casa, tela e altre merci da vendere, e partimmo.

Dar conto del modo in cui si compì il nostro viaggio, che fu lungo e pieno di pericoli, non è cosa per me. Tutto quel che posso dire è che, dopo una terribile traversata, terrorizzati due volte da paurosi uragani e un’altra volta da una cosa peggiore, voglio dire da un pirata che venne a bordo e si prese tutte le nostre provviste; e la cosa più tremenda per me fu che avevano preso mio marito per portarselo via, ma a furia di suppliche si convinsero a lasciarlo; insomma, dopo tante cose terribili arrivammo a York River, in Virginia, e giunti alla nostra piantagione fummo accolti con indicibili manifestazioni di tenerezza e di affetto dalla madre di mio marito.

Abitammo tutti insieme, e mia suocera restò in casa dietro mia preghiera, perché era una madre troppo gentile per separarsene. Anche mio marito continuò a esser lo stesso di prima, e io mi ritenevo la creatura più felice del mondo quando un avvenimento strano e incredibile pose fine a tutta quella felicità e fece della mia condizione la più intollerabile, se non la più sciagurata del mondo.

La mamma era una vecchia signora molto allegra e spiritosa. Posso chiamarla vecchia, perché suo figlio aveva passato la trentina; devo dire che era simpatica, di buona compagnia, e mi faceva passare il tempo, specialmente raccontandomi un monte di storie divertenti sul paese dove eravamo e sulla gente.

Fra l’altro, mi disse spesso che la gran parte degli abitanti della colonia erano arrivati lì dall’Inghilterra in condizioni molto poco buone. In genere, erano di due specie: la prima, quelli che erano stati portati dai padroni delle navi per esser venduti come servitori. “Noi li chiamiamo così, cara,” dice, “ma è più esatto chiamarli schiavi.” L’altra, quelli che erano stati deportati da Newgate o da altre prigioni perché dichiarati colpevoli di delinquenza pericolosa o di altri reati punibili con la pena di morte.

“Quando arrivano qui,” dice, “noi non facciamo nessuna differenza. Li comprano i piantatori e li fan lavorare tutti insieme nei campi finché dura il tempo della loro pena. Quand’è passato,” dice, “li si incoraggia a diventar piantatori in proprio. C’è, infatti, un certo numero di jugeri di terra destinati a questo scopo dalla comunità. Quelli si mettono al lavoro, ripuliscono e curano la terra, e piantano per proprio conto tabacco e grano; e siccome i commercianti fan loro credito per gli attrezzi, i vestiti e gli altri bisogni, garantendosi sul futuro raccolto, quelli ogni anno coltivano un po’ di più dell’anno prima, e così possono comprare tutto quel che gli serve con il raccolto che deve venire.”

“Così, bambina,” dice, “più di un uccello uscito dalla gabbia di Newgate diventa un grand’uomo, e qui abbiamo,” continua, “diversi giudici di pace, ufficiali di polizia, magistrati, che hanno il marchio di fuoco sulla mano.”

Stava continuando quella parte del racconto quando la parte che in quel racconto aveva lei stessa la indusse a interrompersi e con disinvoltura mi confidò che apparteneva anche lei alla seconda categoria di quegli abitanti: era arrivata lì, detto chiaramente, perché s’era spinta troppo oltre in una certa faccenda e l’avevano dichiarata delinquente. “Ed ecco il marchio, bambina,” dice; e, levandosi il guanto, “guarda,” dice, volta il palmo della mano, e mi mostra un bel braccio e una mano molto bella ma marcata in mezzo al palmo, come è prescritto in quei casi.

Il racconto era molto emozionante per me, ma la mamma sorridendo disse: “Non deve sembrarti strano, figlia. Ti ho detto che alcuni degli uomini migliori di questo paese hanno il marchio di fuoco sulla mano e non si vergognano di averlo. C’è il Sindaco…” dice, “che fu un famoso borsaiolo; c’è il Giudice Ba…r, che fu uno scassinatore di negozi; e tutti e due ebbero il marchio sulla mano. Potrei farti il nome di molti altri.”

Facevamo spesso conversazioni del genere, e lei mi dava molti esempi di quel tipo. Qualche tempo dopo, mentre lei mi stava raccontando la storia di uno che era stato deportato poche settimane prima, io presi a chiederle in modo confidenziale di raccontarmi qualcosa della sua storia, e lei lo fece con tutta sincerità e schiettezza: com’era capitata in mezzo alle cattive compagnie in gioventù a Londra, a causa del fatto che sua madre la mandava spesso a portare cibarie e altri soccorsi a una parente che era incarcerata a Newgate e si trovava in miserande condizioni, soffrendo la fame, e fu in seguito condannata all’impiccagione, ma poiché ebbe la proroga facendo ricorso per gravidanza finì col morire in carcere.

Qui mia suocera attaccò un lungo racconto sui costumi corrotti di quel luogo pauroso, che da solo rovinava più giovani di tutta la città fuori. “E poi, bambina,” dice mia madre, “tu forse ne sai poco o addirittura non ne hai mai sentito parlare; ma credimi,” dice, “noi tutti sappiamo che ha fatto più ladri e farabutti quel solo carcere di Newgate di tutte le bande e le società di malfattori della nazione; ed è quel luogo maledetto,” dice la mamma, “che popola per metà questa colonia.”

E continuò con la sua storia, così a lungo e in maniera così particolareggiata che io cominciai a sentirmi molto a disagio; ma quando si venne ad un particolare per cui era necessario che lei dicesse il suo nome, io ebbi l’impressione di sprofondare sotto terra. Lei si accorse che io ero fuori di me, mi chiese se non stavo bene, che cosa mi angustiava. Io le dissi che ero tanto turbata dalla dolorosa storia che lei mi aveva narrato e da tutte le cose terribili che lei aveva passato, che ero sopraffatta e la supplicavo di non parlarne più. “Ma, cara,” dice lei con molta gentilezza, “perché queste cose devono farti tanta impressione? Sono trascorsi di prima che tu venissi al mondo, e a me ora non fanno nessuna impressione; anzi, vi ripenso con una certa soddisfazione, perché furono il mezzo per farmi arrivare dove sono adesso.” Poi continuò a raccontarmi com’era stata fortunata di capitare in una brava famiglia, dove, portandosi lei bene ed essendo morta la padrona, il padrone la sposò; e lei ebbe da lui mio marito e una figlia; e con diligenza e buona amministrazione, dopo la morte del marito, aveva portato la piantagione al livello di adesso; sicché gran parte del patrimonio era il suo, non del marito, dato che era vedova da più di sedici anni.

Questa parte della storia l’ascoltai con pochissima attenzione, perché avevo soprattutto bisogno di ritirarmi e dare sfogo al mio dolore, come subito dopo feci. Giudichi chiunque quale dovette essere l’angoscia dell’animo mio quando giunsi a capire che certamente quella era mia madre, né più né meno, e io avevo già avuto due figli, ed ero incinta di un altro, da mio fratello, con il quale continuavo a coricarmi ogni sera.

Ero adesso la più infelice delle donne al mondo. Oh, non mi fosse stata mai raccontata quella storia, tutto sarebbe stato a posto. Non era stato un delitto essermi coricata con mio marito, quando del fatto che era mio consanguineo io non sapevo nulla.

Avevo ora un tal peso sul cuore che non mi riusciva più di dormire. Svelare il segreto, cosa che m’avrebbe dato un po’ di sollievo, non vedevo a che potesse servire; celarlo, tuttavia, appariva quasi impossibile. Anzi, ero certa che ne avrei parlato nel sonno, avrei detto tutto a mio marito anche senza volere. Se mi decidevo a parlare, il meno che dovevo attendermi era di perdere il marito, perché era un uomo troppo per bene, troppo onesto, per restare mio marito dopo aver appreso che io ero sua sorella; cosicché ero al colmo della perplessità.

Lascio a chiunque giudicare quali problemi avessi di fronte. Ero lontana dal mio paese natale, ad una distanza fantastica, insormontabile per un viaggio di ritorno. Vivevo molto bene, ma in una situazione di per sé intollerabile. Se mi fossi confessata a mia madre sarebbe stato difficile convincerla dei particolari, e non avevo modo di provarli. D’altra parte, se lei mi faceva qualche domanda o aveva qualche dubbio io ero perduta perché un semplice accenno sarebbe bastato immediatamente a dividermi da mio marito, senza conquistarmi né mia madre né lui, che non mi sarebbe stato più né marito né fratello; così, suscitando insieme da un lato la meraviglia e dall’altro il dubbio, ero certa che mi sarei vista perduta.

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