Read Moll Flanders (Collins Classics) Online

Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Moll Flanders (Collins Classics) (65 page)

BOOK: Moll Flanders (Collins Classics)
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La stanza che avevo io era vicina a quella dell’olandese, e dopo aver trascinato con gran fatica quella pesantissima cosa in camera mia, uscii in strada, per vedere se trovavo il modo di portarla via. Passeggiai per parecchio tempo, ma non riuscii a vedere nessuna maniera di portar fuori quell’oggetto, né di portar via la roba che c’era dentro dopo averlo aperto, perché il paese era molto piccolo, e io ero assolutamente forestiera; perciò me ne stavo per tornare, decisa a riportarlo e a lasciarlo dove l’avevo trovato. Proprio in quel momento sentii un uomo dare la voce a certa gente, per fargli fretta, dicendo che la barca stava per levar l’ancora, perché calava la marea. Io chiamai quel tizio.

“Che barca è la vostra, amico?” dico.

“Il traghetto di Ipswich, signora,” dice lui.

“Quando levate l’ancora?” dico io.

“Adesso, signora,” dice lui, “volete andar lì?”

“Sì,” dico io, “se faccio a tempo a prendere la mia roba.”

“Dov’è la vostra roba, signora?” dice.

“Alla tal locanda,” io dico.

“Bene, verrò io con voi,” dice lui molto cortesemente, “e ve la porterò io.”

“Venite, allora,” io dico, e lo conduco con me.

La gente della locanda era occupatissima, perché erano appena arrivati il postale dall’Olanda e due diligenze di passeggeri da Londra, diretti a un altro postale che salpava per l’Olanda, e le diligenze dovevano ripartire già il giorno dopo con i passeggeri che erano appena sbarcati. In quella confusione nessuno badò al fatto che io mi presentai al banco a pagare il mio conto, dicendo alla padrona che avevo trovato il posto sul traghetto.

Questi traghetti sono barche molto grandi, con una buona sistemazione per portare i passeggeri da Harwich a Londra; e benché li chiamino traghetti, termine che sul Tamigi si usa per definire una piccola barca a remi per una o due persone, questi sono invece battelli capaci di portare venti passeggeri e dieci o quindici tonnellate di merce, fatti per tenere il mare. Tutto ciò l’avevo saputo la sera prima, informandomi circa i possibili modi di andare a Londra.

La padrona della locanda fu molto gentile, prese i denari del conto, ma fu chiamata via, perché regnava la confusione in tutta la casa. Perciò la lasciai, condussi quel tizio in camera mia, gli consegnai il baule, o portamantello, perché era quasi un bauletto, l’avvolsi in un vecchio grembiule, e lui se ne andò diretto con quello alla barca, e io dietro a lui, senza che nessuno ci facesse la minima domanda; quanto al paggio olandese ubriaco, era ancora addormentato, e il suo padrone stava cenando di sotto con un altro forestiero, ed erano tanto allegri, sicché io me la filai tranquillamente verso Ipswich; e siccome era sera, alla locanda non sapevano altro se non che avevo preso il traghetto di Harwich, come avevo detto io alla padrona.

A Ipswich ebbi delle noie con i funzionari della dogana, che bloccarono il mio baule, come io lo chiamavo, e volevano aprirlo e perquisirlo. Io dissi che non avevo nulla in contrario, lo perquisissero pure, ma la chiave l’aveva mio marito, che non era ancora arrivato da Harwich; dissi questo perché, se dalla perquisizione risultava che c’era dentro roba più adatta a un uomo che a una donna, la cosa non paresse strana. Comunque, siccome volevano assolutamente aprire il baule, io permisi che lo forzassero, e cioè che togliessero il catenaccio, cosa non difficile.

Non trovarono niente che li riguardasse, e questo perché il baule era stato già perquisito prima, ma misero in vista diverse cose che mi dettero grande soddisfazione, e in particolare un quantitativo di denaro in pistole francesi e in ducati olandesi, o dollari, e il resto era costituito da due parrucche, biancheria, saponette, profumi, e altre cose utili, il necessario per uomo, che passarono come di mio marito, e così io mi liberai di quelli.

Era mattino molto presto, e c’era poca luce, e io non sapevo che strada prendere; infatti temevo al mattino d’essere inseguita, e magari presa con la roba; perciò decisi di arrangiarmi in altra maniera. Mi recai ostentatamente a prendere alloggio in una locanda col mio baule, come lo chiamavo, e, tolto il contenuto, giudicai che del contenente non valesse la pena di occuparsi; lo affidai, comunque, alla padrona, con la raccomandazione di averne gran cura e conservarlo al sicuro fino al mio ritorno, e uscii per via.

Quand’ebbi fatto un bel po’ di strada dalla locanda, per la città, m’imbattei in una vecchia che aveva appena aperto l’uscio di casa sua, e mi misi a chiacchierare con lei, le feci una quantità di domande a casaccio, tutte molto lontane da quelli che erano i miei piani; ma durante la mia conversazione con lei appresi com’era fatta la città, che mi trovavo in una via che portava a Hadley, ma che la tal strada portava alla spiaggia mentre la talaltra portava nel centro della città, e quell’altra strada infine portava a Colchester, sicché era da quella parte la via per Londra.

Ne ebbi presto abbastanza della vecchia, perché l’unica cosa che m’interessava era trovare la via per Londra; non che volessi andarci a piedi, né a Londra né a Colchester, ma volevo andarmene nel modo più inosservato da Ipswich.

Feci altre due o tre miglia a piedi, e lì incontrai un bravo campagnolo, che si stava dando da fare in non so che lavoro agricolo, e gli posi dapprima una quantità di domande, prive di scopo, ma alla fine gli dissi che ero diretta a Londra, che la diligenza era piena e io non trovavo posto, e gli domandai se sapeva dirmi dove potevo trovare da prendere a nolo un cavallo capace di portar due persone, e un galantuomo che montasse davanti a me fino a Colchester, in modo da trovare lì un posto sulla diligenza. Il buon cafone mi guardò tutto serio per un po’, e per un buon mezzo minuto non disse niente, poi, grattandosi la capoccia, disse: “Un cavallo, dite? Per Colchester? Da montare in due? Ma sì, signora, perbacco, quanti cavalli volete, ci sono, naturalmente pagando.”

“Certo, amico,” dico io, “questo lo sapevo; mica lo volevo senza pagare.”

“Ma, signora,” dice lui, “quanto volete pagare?”

“Ecco,” dico di nuovo io, “io non conosco le vostre tariffe in questo paese, perché sono forestiera; ma se voi potete procurarmene uno, prendetelo al prezzo più basso possibile, e io darò a voi qualcosa per il vostro disturbo.”

“Ecco, questo è parlare onesto,” dice il contadino.

“Onesto mica tanto,” io dissi tra me, “se tu sapessi tutto.”

“Ecco, signora,” quello dice, “ho io un cavallo che può portar due persone, e non mi fa niente venire io con voi,” e via di questo passo.

“Sì?” dico io; “bene, vedo che siete un onest’uomo; se ci state, a me va bene; e vi pagherò ragionevolmente.”

“Ecco, sentite, signora,” lui dice, “allora lo troverete ragionevole: se vi porto a Colchester, vi costerà cinque scellini per me e per il cavallo, perché difficilmente ce la farò a tornare in serata.”

In breve, presi l’onest’uomo e il suo cavallo; però quando arrivammo a un paese lungo la strada (non ricordo il nome, ma è su un fiume) finsi di sentirmi molto male e di non poter più proseguire per quella sera, ma volli che lui si fermasse con me, perché io ero forestiera, e ben volentieri pagavo di più, sia per lui che per il cavallo.

Feci questo perché immaginavo che il gentiluomo olandese e i suoi servitori fossero per strada quel giorno, o in diligenza o coi cavalli da posta, e non volevo che l’ubriaco, o chiunque altro mi avesse potuto vedere a Harwich, mi rivedesse, e così pensai che un giorno di sosta poteva bastare a farli passare oltre.

Restammo lì la notte, e il giorno dopo non era troppo presto quando ci mettemmo in viaggio, sicché erano quasi le dieci quando arrivammo a Colchester. Non fu senza piacere che rividi la città dove avevo trascorso tanti giorni piacevoli, e chiesi informazioni dei bravi vecchi amici che un tempo avevo avuto colà, ma trovai ben poco; erano tutti morti o s’erano trasferiti. Le signorine s’erano tutte sposate o erano andate a Londra; il vecchio signore e la vecchia signora che era stata la mia prima benefattrice erano morti tutti e due; e quel che più mi turbò fu che il giovanotto che era stato il mio primo amante, ed era poi diventato mio cognato, era morto anche lui; di lui restavano due figli, uomini fatti, ma s’erano trasferiti a Londra.

Licenziai lì il mio vecchio, e restai tre o quattro giorni a Colchester in incognito, poi presi posto su un carro, perché non mi arrischiavo a farmi vedere sulle diligenze di Harwich. Ma avrei potuto fare a meno di usare tante precauzioni, perché c’era soltanto la padrona della locanda che m’avesse visto a Harwich; né era ragionevole pensare che quella, col daffare in cui si trovava e avendomi vista solo una volta, e a lume di candela, fosse in grado di smascherarmi.

Adesso ero rientrata a Londra, e anche se per i casi dell’ultima impresa avevo fatto un bel guadagno, tuttavia non avevo nessuna voglia di fare altre gite in provincia, e, avessi dovuto anche far quel mestiere fino alla fine dei miei giorni, non mi sarei avventurata più fuori città. Feci alla mia governante la storia del mio viaggio; a lei piacque molto l’impresa di Harwich, e, discorrendone tra noi, disse che, siccome il ladro è una persona che studia gli errori altrui, è impossibile che manchino le occasioni a chi sa essere attento e paziente, e di conseguenza, a suo parere, a una persona brava nel mestiere com’ero io non poteva non presentarsi almeno una bella occasione dovunque me ne andassi.

D’altra parte, ogni episodio del mio racconto, purché debitamente considerato, può riuscire utile alla gente onesta, e costituire un serio monito per le persone d’un tipo o di un altro a premunirsi dalle sorprese e a tener gli occhi aperti quando hanno a che fare con forestieri d’ogni genere, perché è raro che non vi sia qualche trappola sul loro cammino. La morale, insomma, di tutta la mia storia, è lasciata da tirare al buon senso e al giudizio del lettore; io non sono qualificata per far la predica. Possa l’esperienza di una persona tanto corrotta e tanto sciagurata essere un repertorio completo di insegnamenti utili per chi legge .

Mi sto avviando ora a narrare un’altra specie di vicende vissute. Al mio ritorno, divenuta una dura grazie a una lunga sfilza di delitti e ad un successo senza paragone (almeno secondo le mie informazioni), non avevo, come ho detto, la minima intenzione di lasciar perdere un mestiere che tuttavia, se dovevo giudicare in base all’esempio altrui, non poteva non terminare nella sciagura e nel dolore.

Fu il giorno dopo Natale, di sera, che, a conclusione di una lunga serie di cattive azioni, uscii di casa per andare in giro a vedere che cosa trovavo sul mio cammino; e passando davanti alla bottega di un orefice in Poster Lane, vidi un’esca tentatrice, irresistibile per una persona del mio ramo, perché nel negozio, a quel che vedevo, non c’era nessuno, e una gran quantità di argenteria era sparsa nella vetrina e sul bancone, davanti al posto dell’uomo che di solito, immaginai, lavorava in quella bottega.

Entrai decisa, feci per posare la mano su uno di quei pezzi d’argenteria, e l’avrei potuto benissimo fare, squagliandomela col bottino, fosse stato per la cura che se ne davano gli uomini addetti a quella bottega; ma un tipo zelante che era in una casa, non in una bottega, dall’altra parte della via, vedendomi entrare e accorgendosi che dentro non c’era nessuno, traversa correndo la strada, entra in bottega e senza nemmeno domandarmi chi ero e che volevo mi afferra e si mette a gridare chiamando la gente di casa.

Io, come ho detto, non avevo toccato niente in quel negozio, e nell’istante medesimo in cui con la coda dell’occhio vidi qualcuno arrivare di corsa, ebbi tanta presenza di spirito da picchiar forte col piede in terra, e stavo incominciando a chiamare a voce alta quando quello mi mise le mani addosso.

Comunque, siccome il coraggio maggiore lo avevo sempre quando più mi trovavo in pericolo, mi attaccai forte a quel punto, che cioè ero entrata per comprare mezza dozzina di cucchiai d’argento; e per mia buona sorte quello era un orefice che vendeva anche argenteria, così come lavorava argento per altre botteghe. Quel tale la prese in ridere, dava tanto importanza al favore che aveva fatto al suo vicino, da volere assolutamente che io fossi entrata lì per rubare, non per comprare; e richiamò gran folla. Io dissi al padrone del negozio, che nel frattempo era stato richiamato a casa da qualche posto nelle vicinanze, che era inutile far tutto quel chiasso, e mettersi a discutere lì la faccenda; quel tizio insisteva che io ero entrata per rubare, e doveva darne la prova, e io volevo che andassimo subito davanti a un magistrato senza altre storie; già capivo, infatti, che l’uomo che m’aveva presa non se la sarebbe passata liscia.

Il padrone del negozio e la moglie non erano per la verità violenti come l’uomo dell’altro lato della via; disse il padrone: “Signora, per quel che ne so io avreste potuto entrare in bottega con intenzioni buone, ma era chiaramente un grosso pericolo per voi entrare in una bottega come la mia quando vedevate bene che non c’era nessuno; e io non posso non rendere giustizia al mio vicino, che è stato così gentile con me, devo ammettere che aveva tutte le ragioni; anche se, dopo tutto, a me non risulta che voi abbiate cercato di prender niente, e perciò non so davvero che risolvere.” Io insistetti con lui perché andassimo subito davanti a un magistrato, e se si provava contro di me che io avevo comunque avuto l’intenzione di rubare, io mi sarei volentieri sottomessa, ma in caso contrario mi sarei attesa una riparazione.

Proprio mentre eravamo presi in quella discussione, e una folla di persone s’era formata davanti alla porta della bottega, passò Sir T. B., che era consigliere municipale e giudice di pace; saputolo, l’orefice va subito fuori a supplicare sua signoria di venir dentro a risolvere il caso.

Va detto a tutto merito dell’orefice che fece il suo racconto con grandissima imparzialità e moderazione, mentre il tipo che si era intromesso e che mi aveva afferrata fece il suo con molta foga e con rabbia idiota, che a me giovò invece di farmi danno. Venne poi il turno mio di parlare, e io raccontai a sua signoria che ero forestiera in città, perché ero appena arrivata dal nord; alloggiavo nel tal posto, stavo passando per quella via, ed ero entrata nel negozio dell’orefice per comprare una mezza dozzina di cucchiai. Per buona sorte, avevo in tasca un vecchio cucchiaio d’argento, che tirai fuori, e dissi che l’avevo portato con me per trovarne una mezza dozzina di nuovi che andassero bene con quello, da tenere insieme con altri che avevo in campagna.

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